Quando si pensa alla politica estera americana, spesso il Mediterraneo non viene citato in maniera esplicita come un’area di specifico interesse per gli strateghi di Washington. Tuttavia lo scacchiere mediterraneo rappresenta ormai da decenni una regione in cui gli Stati Uniti investono significativamente in termini di impegno politico e militare. L’interesse degli USA per il Mediterraneo riflette delle tendenze di lungo periodo che hanno influenzato prima di Washington anche altre potenze occidentali. Questa regione ha, infatti, una forte valenza storica e culturale: è la culla dell’ebraismo e del cristianesimo – oltre che un’area di sviluppo fondamentale per l’islam – ed è il teatro in cui sono sorte e fiorite le civiltà greca e romana. Il Mediterraneo ha anche una funzione geografica fondamentale di contatto fra l’Europa occidentale, l’Africa, il Medio Oriente e l’Oceano indiano, una caratteristica che oggi appare evidente sia a chi si interessa di flussi commerciali globali che a chi si occupa di migrazioni. A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, inoltre, lo scacchiere mediterraneo ha assunto una valenza fondamentale per i leader americani anche per due ulteriori motivi: l’importanza crescente delle risorse energetiche del Nord Africa e del Medio Oriente, e la presenza di un alleato sempre più stretto di Washington, Israele. È proprio in relazione a una questione mediterranea, la volontà di sostenere governi favorevoli alla visione del mondo e agli interessi di Washington in Grecia e Turchia, che nei primi anni del secondo dopoguerra il presidente Harry Truman pronunciò una delle dottrine fondamentali nella definizione della strategia americana nei confronti della sfida posta dall’Unione sovietica durante la Guerra fredda.
Grecia e Turchia, relazioni con Mosca, Israele e risorse energetiche figurano ancora oggi come fattori fondamentali nel tenere alto l’interesse di Washington per lo scacchiere mediterraneo e in particolare per quella che sembra essere una delle aree più “calde” della regione: il Mediterraneo del sud-est.
Nonostante i timori di un disimpegno statunitense destato dalla retorica del presidente Donald Trump, la crescente presenza militare a stelle e strisce nella regione dimostra che gli Stati Uniti sono ancora decisamente interessati a giocare un ruolo chiave negli equilibri mediterranei, un compito che, come vedremo, si sta dimostrando difficile e delicato. È proprio in questa regione, infatti, che Trump e i suoi consiglieri si trovano ad affrontare avversari ostici come la Russia e l’Iran, a gestire le relazioni con alleati fondamentali come i partner della Nato e Israele, a contrastare sfide come il terrorismo e le emergenze umanitarie, e a dover fare i conti con importanti sviluppi economici con importanti ramificazioni geopolitiche.
Sebbene Trump abbia più volte manifestato apprezzamento nei confronti del suo omologo russo Vladimir Putin, l’attivismo di Mosca nel Mediterraneo, e in particolare l’intervento militare nella guerra civile siriana a sostegno del regime di Bashar al-Assad, ha destato forti preoccupazioni a Washington e ha contribuito sostanzialmente alla decisione dell’amministrazione Trump di aumentare sia quantitativamente che qualitativamente la presenza militare americana nella regione. Nel 2019 gli Stati Uniti hanno visibilmente accresciuto la loro presenza militare nel Mediterraneo, schierando due portaerei con relative flotte di supporto. Questa tendenza sembra essere stata confermata anche nei primi mesi del 2020, con il parere espresso da vari esponenti di punta delle forze armate americane in favore di ulteriori dispiegamenti sullo scacchiere mediterraneo. Uno degli obiettivi espliciti di questo incremento è proprio la volontà di contenere l’attivismo militare russo in Siria e nel resto della regione.
La crescente presenza a stelle e strisce nel Mediterraneo orientale va anche letta alla luce di recenti sviluppi in campo energetico che hanno interessato la regione. Il Mediterraneo del sud-est è, infatti, diventato un importante hub energetico grazie soprattutto alle scoperte di consistenti giacimenti di gas al largo delle coste di Cipro. Tutto ciò ha stimolato una crescente collaborazione fra i governi greco, cipriota e israeliano tanto da portare, lo scorso gennaio, a un accordo per la costruzione del gasdotto EastMed – un progetto in cui è coinvolta anche la società italiana Edison. Anche la multinazionale ExxonMobil sta partecipando allo sviluppo dei giacimenti ciprioti e questa combinazione di interessi economici di compagnie americane e le prospettive di maggiore cooperazione fra alleati contribuisce, al pari della necessità di contrastare avversari come la Russia, a spiegare l’aumento di interesse e di attivismo da parte di Washington, così come il rafforzamento dei legami fra Stati Uniti e Grecia. Tuttavia il crollo dei prezzi degli idrocarburi favorito dall’esplosione della pandemia di Covid-19 sta imponendo una frenata drastica anche ai progetti legati allo sfruttamento di gas naturale e sembra destinato a influire anche sulle dinamiche energetiche mediterranee.
La Turchia rappresenta infine l’ultimo tassello del complesso mosaico che gli strateghi di Washington si stanno sforzando di comporre nel Mediterraneo del sud-est. Negli anni il paese è diventato un cardine dell’Alleanza atlantica e uno snodo fondamentale nel garantire la sicurezza energetica europea. Tuttavia, sotto la guida di Recep Tayyip Erdoğan, il governo turco sta acquisendo caratteri sempre più autoritari sul piano interno e sta adottando una linea di politica estera sempre più problematica, soprattutto nei confronti dei propri alleati occidentali.
Erdoğan ha avuto recentemente rapporti piuttosto tesi sia con Washington che con altre capitali di paesi membri della Nato, su questioni che riguardano sia l’alleanza che la sicurezza mediterranea più in generale. La Turchia occupa da decenni la parte nord di Cipro e il governo di Ankara ha manifestato la sua opposizione al gasdotto Eastmed e ha invocato a gran voce un ruolo maggiore nello sfruttamento delle risorse della regione. In questo quadro, Erdoğan ha anche incrementato il sostegno turco al Governo di accordo nazionale libico – riconosciuto anche dalle Nazioni unite e dall’Italia – e concluso con Tripoli un accordo marittimo che può creare ostacoli in relazione allo sfruttamento del gas cipriota.
Questa svolta assertiva da parte di Ankara sta portando a una crescente tensione con alcuni alleati della Nato come la Francia e la Grecia, ma pone delle serie sfide anche per Trump e i suoi consiglieri. Il governo di Ankara ha, infatti, recentemente lanciato un’operazione militare su vasta scala in Siria. Sebbene l’obiettivo dichiarato sia quello di combattere il terrorismo e permettere il ritorno dei rifugiati siriani presenti sul territorio turco, l’intervento di Ankara appare anche finalizzato a impedire il consolidarsi di un’enclave curda nel nord della Siria. Trump ha inizialmente approvato questa operazione, ma ha poi sentito la necessità di qualificare il sostegno di Washington, in quanto l’intervento turco rischia di avere effetti catastrofici per le milizie curde Ypg operanti in Siria, che hanno svolto un ruolo militare di grande valore a fianco delle forze americane nella lotta contro Daesh. Inoltre, pur trovandosi su fronti contrapposti con Mosca sia sul fronte siriano che su quello libico, la Turchia ha recentemente concluso degli accordi con la Russia per la fornitura di missili S-400. Questa mossa, che agli occhi di Erdoğan dovrebbe garantire non solo armamenti sofisticati, ma anche trasferimenti di tecnologia tali da favorire maggiore autonomia nel campo della difesa, crea chiaramente degli enormi problemi e potenziali vulnerabilità per la Nato e per gli Stati Uniti, che infatti hanno sospeso la Turchia dal consorzio impegnato nello sviluppo dell’aereo militare F-35 e hanno imposto delle sanzioni economiche nei confronti di Ankara. Lo schieramento degli S-400 è stato recentemente ritardato a causa dell’emergenza coronavirus, ma Erdoğan non sembra disposto a cedere alle pressioni di Washington.
A più di settant’anni dalla dottrina Truman, e in un contesto internazionale dominato dall’emergenza sanitaria più preoccupante dai tempi dell'”Influenza spagnola”, l’epidemia che seguì la Prima guerra mondiale, il Mediterraneo del sud-est continua a chiamare in causa i valori e gli interessi geopolitici di Washington e rimane un orizzonte di fondamentale importanza per la politica estera americana.
Diego Pagliarulo